Relazione di Veltroni al Coordinamento Nazionale del PD del 15/05/08
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Relazione di Veltroni al Coordinamento Nazionale del PD del 15/05/08
La relazione di Walter Veltroni al Coordinamento Nazionale del Partito Democratico del 15 maggio 2008
Il senso di amarezza e di delusione che ha pervaso gli animi dei militanti e degli elettori del Partito democratico, per il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile, non è semplicemente un fatto emotivo, comprensibile e perfino scontato. E’ esso stesso un dato politico, da rispettare e da analizzare. E col quale fare i conti fino in fondo, senza scorciatoie autoconsolatorie.
Quella amarezza e quella delusione ci dicono infatti quanto alto fosse il livello delle nostre aspettative. Non a caso, ci siamo definiti un partito “a vocazione maggioritaria”. Perché la nostra vocazione, ossia il senso stesso del nostro esistere come partito, è quella di rappresentare la maggioranza degli italiani, di essere da essa considerati la principale risorsa per il buon governo del Paese. Non raggiungere quella soglia, la maggioranza necessaria a governare, significa perdere le elezioni, essere e “sentirsi” sconfitti.
Niente, meglio di questo dato, che è di psicologia collettiva ma anche di cultura politica, misura la distanza che ormai ci separa dalla lunga vicenda del “bipartitismo imperfetto” della seconda metà del Novecento: quando una delle due maggiori forze politiche del Paese era “condannata a governare”, mentre l’altra sapeva di poter aspirare solo a “governare dall’opposizione”. Essa avrebbe giudicato il nostro risultato odierno, che ci ha visti raccogliere 12 milioni di voti e attestarci tra il 33 e il 34 per cento, una “impetuosa avanzata”. Noi, giustamente, non lo abbiamo giudicato così..
A trent’anni dalla morte di Aldo Moro, il punto più alto e tragico della parabola della nostra “democrazia difficile”, la democrazia italiana ha mosso un altro passo importante nella direzione della “democrazia compiuta”.
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Il senso di amarezza e di delusione che ha pervaso gli animi dei militanti e degli elettori del Partito democratico, per il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile, non è semplicemente un fatto emotivo, comprensibile e perfino scontato. E’ esso stesso un dato politico, da rispettare e da analizzare. E col quale fare i conti fino in fondo, senza scorciatoie autoconsolatorie.
Quella amarezza e quella delusione ci dicono infatti quanto alto fosse il livello delle nostre aspettative. Non a caso, ci siamo definiti un partito “a vocazione maggioritaria”. Perché la nostra vocazione, ossia il senso stesso del nostro esistere come partito, è quella di rappresentare la maggioranza degli italiani, di essere da essa considerati la principale risorsa per il buon governo del Paese. Non raggiungere quella soglia, la maggioranza necessaria a governare, significa perdere le elezioni, essere e “sentirsi” sconfitti.
Niente, meglio di questo dato, che è di psicologia collettiva ma anche di cultura politica, misura la distanza che ormai ci separa dalla lunga vicenda del “bipartitismo imperfetto” della seconda metà del Novecento: quando una delle due maggiori forze politiche del Paese era “condannata a governare”, mentre l’altra sapeva di poter aspirare solo a “governare dall’opposizione”. Essa avrebbe giudicato il nostro risultato odierno, che ci ha visti raccogliere 12 milioni di voti e attestarci tra il 33 e il 34 per cento, una “impetuosa avanzata”. Noi, giustamente, non lo abbiamo giudicato così..
A trent’anni dalla morte di Aldo Moro, il punto più alto e tragico della parabola della nostra “democrazia difficile”, la democrazia italiana ha mosso un altro passo importante nella direzione della “democrazia compiuta”.
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